Dai valore alla virtù, non alla forza. Dai valore alla saggezza, non alle azioni ardite.
Se alla forza e alle arditezze ti dedicherai, rovina e perdita son tutto ciò che ne otterrai.
Con questo adagio i vecchi maestri redarguivano molto spesso gli allievi più facinorosi e facili alla violenza, ricordando loro quanto importante fosse il rispetto dell’Etica marziale.
Questo proverbio non ha lo scopo di sminuire il valore dell’abilità marziale, ma fa intendere che l’abilità nel combattimento deve essere necessariamente subordinata alla condotta e all’integrità morale di chi ne dispone. Nell’ottica marziale tradizionale cinese il miglior praticante non è quello che sa difendersi più efficacemente, ma colui che vive la propria pratica e la propria vita in maniera onesta e leale, evitando lo scontro e operandosi per il bene degli altri.
Anticamente v’era enorme differenza tra chi possedeva abilità marziali e chi non ne possedeva: gli antichi praticanti di arti marziali affinavano il proprio gongfu fino a raggiungere capacità fisiche e strategiche di molto superiori alla gente del proprio tempo, erano in grado di sviluppare una tale ferocia nel combattimento da riuscire a danneggiare permanentemente o addirittura uccidere i propri avversari. Sebbene non vi fosse sempre l’intenzione di ferire l’avversario, spesso i colpi risultavano fatali. Le cronache nel mondo marziale cinese narrano molto spesso episodi di grande violenza nel combattimento.
Molti praticanti di arti marziali, allora come oggi, possedevano inoltre un temperamento irascibile e un carattere esuberante e facile alle mani. Per questo si raccomandavano le buone virtù come deterrente alla violenza.
A questo proposito un motto antico proveniente dallo Shiji (Memorie storiche) di Sima Qian recita:
Prospero è chi alla virtù si dedica, rovina attende chi alle azioni di forza si adopra.
Sin dall’antichità in Cina l’utilizzo della forza è stato vissuto come sintomo di bassa moralità. La supremazia storica del Wen, ossia la cultura, sul Wu, il marziale, riflette il valore minore attribuito dalla cultura antica cinese all’azione violenta.
Il capitolo 68 del Laozi descrive il modello del bravo combattente, che fonda la sua arte sulla passività e la riduzione del proprio desiderio di guerra:
Il bravo soldato non ha piglio marziale
Un bravo guerriero non è rabbioso
Un bravo vincitore non affronta i suoi nemici
Soltanto mettendo la propria abilità al servizio della pace e del bene prossimo, misurando con moralità e buon senso i pericoli e le difficoltà, si potrà raggiungere la quintessenza delle arti marziali.
E. Tobia